Da Bellizzi a Cambridge per combattere il Covid-19

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La lotta al mostro del 2020, il Covid-19, fa tappa a Cambridge. E porta la firma di un italiano. Si chiama Guido Papa, 29enne mutuato da Bellizzi che, prima di arrivare nella storica università inglese, ne ha fatta di strada: cinque anni di università a Siena, dove ha studiato Biotecnologie Mediche, prima di spostarsi a Trieste per il dottorato al centro internazionale d’ingegneria genetica. E a gennaio 2020, il post dottorato, come ricercatore, all’istituto di Cambridge presso l’MRC (Laboratory of Molecular Biology). Casa di diversi premi nobel e laboratorio che si occupa principalmente di virologia. Anche se, a onoro del vero, il giovane bellizzese a Cambridge avrebbe dovuto studiare un altro virus: l’HIV.

(intervista estratta dal quotidiano La Città di Salerno 27/08/2020)

DA BELLIZZI A CAMBRIDGE: L’INTERVISTA

-Come mai ti sei ritrovato a fare ricerca sul Covid-19?

Nel laboratorio dove lavoro si studia principalmente l’HIV, ma quando è scoppiata la pandemia ci siamo dovuti riconvertire per dare il nostro contributo. Abbiamo cominciato a studiare il Covid-19. E in particolare, durante questi sei mesi, abbiamo cercato di capire quale fosse il meccanismo con il quale il virus si diffonde da cellula a cellula.

-E cosa avete scoperto?

Il virus, innanzitutto, fa parte di una nuova famiglia dei Coronavirus. Che provocano malattie dal comune raffreddore, fino a sindromi respiratorie molto più gravi come lo sono state Sars e Mers. Si chiamano così perché i loro virioni, quando li guardi al microscopio elettronico, appaiono come dei globuli si quali ci sono tante punte proteiche. Che ricordano appunto quelle di una corona. Una di queste punte è conosciuta come la proteina “Spike”.

-Qual è la sua importanza?

La proteina “Spike” consente di far entrare il virus all’interno della cellula. Noi ci siamo focalizzati principalmente su quel tipo di proteina che, quando viene prodotta dal virus, è inattiva. Si attiva all’interno della cellula grazie a un enzima cellulare chiamato “Furina”. Ed è proprio su questo aspetto che si concentra il nostro studio.

-Perché?

Fino ad oggi, la strategia usata dai ricercatori era quella di inibire l’enzima cellulare in modo tale da non attivare la “Spike” e impedire al virus di replicare. Quello che abbiamo dimostrato nel nostro studio, però, è che la “Furina” non è l’unico enzima in grado di attivare la “Spike”. Ci sono altre cosa da inibire. Il virus passa da una parte all’altra fondendo le cellule attraverso la “Spike”. Dato che ci sono altre proteine cellulari in grado di attivare la diffusione, abbiamo pensato di dare un altro target molecolare verso il quale inviare gli inibitori e cercare di fermare la diffusione.

Guido Papa Cambridge-Quali sono i tempi?

-Questa è la prima fase della ricerca. Adesso stiamo lavorando a un antivirale specifico per il Covid-19. In particolare, sui meccanismi molecolari. Abbiamo chiesto la collaborazione anche di altri centri di ricerca presenti in Inghilterra, in modo da effettuare uno ‘screening’ di tutti gli antivirali specifici. I tempi della ricerca sono lunghi, si sa. Credo che ci vorrà perlomeno un altro anno.

-All’inizio gli inglesi questo virus lo hanno sottovalutato…

È vero. Chi rispettava le regole, all’inizio, erano proprio gli italiani. Perché sapevano cosa stesse succedendo nel loro paese. Siamo stati i primi in Europa a vivere la tragedia. Il presidente Johnson aveva pensato a un’immunità di gregge, ma i laboratori di epidemiologia lanciarono subito l’allarme avvertendo che sarebbe stato un grave errore. Si sono trovati a chiudere con venti giorni di ritardo, e c’è stato solo un mese di chiusura totale. Diciamo che il loro approccio è stato un po’ più morbido. Come spesso capita nei paesi nordici. Io personalmente ho vissuto tutto il ‘lockdown’ all’interno del laboratorio, grazie al permesso da lavoratore che avevo. Adesso ci sono circa 1.000 casi al giorno, poco più dell’Italia.

La prima firma sulla ricerca è la tua. Cosa vuol dire?

Sono quello che ha fatto gli esperimenti e portato avanti la ricerca. Gli altri hanno collaborato nella stesura dell’articolo. All’interno della struttura ci sono diversi italiani ma nel nostro gruppo, tra una decina di persone, sono l’unico. E questo mi rende orgoglioso. 

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