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di Antonio Vacca

Ultima domenica di novembre e primo tagliando per la nuova stagione del Teatro Sociale Aldo Giuffré. Inizio classico con ‘un Pirandello’ non  molto ricorrente, spettacolo forte e impegnativo, il cui titolo, “Non si sa come”, prefigura mistero e, succede spesso per il grande autore, interrogativi non risolti. Oltretutto, fra i testi del Nobel siciliano questo è dei meno interattivi, cioè il classico teatro ‘di parola’, che tesse le già complesse trame pirandelliane, qui è soprattutto di monologhi, esplosive rivelazioni d’una follia che prende il protagonista tormentato da un progressivo disvelarsi di rimorsi omicidiari, dubbi sulla fedeltà coniugale e giochi d’adulterio, tutto percorso da un racconto – si fa per dire, una serie di rabbiose sfuriate – che trascina lo spettatore nel dubbio, ma questo è il minimo: lo coinvolge in un nevrotico gioco di riflessione su ciò che precede, sta sotto o prima della coscienza; ed all’improvviso spunta dolorosamente, non si sa nemmeno come.

Il rumoroso protagonista è reso adeguatamente da Francesco Branchetti, anche regista della rappresentazione, già noto al pubblico del Giuffré per aver recitato (pure lì, da regista) al fianco di un’impeccabile Nathalie Caldonazzo in “Parlami d’amore” una delle ultime pièces viste a Battipaglia prima del vuoto pandemico. A sostegno della ‘pazza’ performance di Branchetti, due attrici di rango ed esperienza, Isabella Giannone tutta chiusa in un’umiliazione muliebre alla quale conferisce i toni più sofferti eppure abilmente sfumati ed Annalena Lombardi, meno variata, nei panni de ‘l’altra’, chiusa nelle movenze minime di quella vita impossibile. Vivace e puntuale il contributo di Giuseppe Renzo nel ruolo del coniuge rimanente, parte non facile perché in quel caos progressivo dovrebbe raffigurare un minimo di normalità.

non si sa come teatro giuffrèAndrea Zanacchi è il giusto corteggiatore un po’ strampalato da tipica storia primo Novecento. Scenografia di sobrietà disarmante (anche il vermouth è… incolore), nessun cambio d’abiti, il primo atto sfumato dal secondo ed intervallo solo prima del terzo, pochissimi cenni topografici, la menzione di qualche giorno che trascorre, ma in realtà oltre due ore di messa in scena che sembrano un solo blocco dalle tinte claustrofobiche che a tratti ricordano Beckett. Avvio di particolare caratura per la nuova annualità del ‘palcoscenico’ battipagliese condotto dall’attore Vito Cesaro (qualche giorno prima impegnato in un omaggio narrativo-musicale a Stravinskij) chiacchierando col quale prima della serata, abbiamo colto tutte le difficoltà di svolgimento d’una stagione allestita in buona parte all’insegna delle ‘Compagnie’, in un momento in cui le crisi varie rimaneggiano la scena all’essenziale; poi fra mille difficoltà burocratiche da virosi: e con una risposta di pubblico a nostro avviso insufficiente (ci chiediamo, ma in una cittadina scandinava diserterebbero Ibsen o Strindberg?). Insomma Battipaglia onorata da un cartellone teatrale solo per la buona ostinazione e la volontà passionale di Vito ed il suo staff. Un miracolo. Veramente, non si sa come…