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“Ciao sorellina, si va a protestare! Vuoi venire? Lo avevo guardato sott’occhio. La sera prima avevamo litigato anche di brutto, ma non riuscivo ad avercela con lui. Era pur sempre mio fratello, la mia famiglia, soprattutto ora a Battipaglia. Alla Graf sud se ne parlava da giorni e lui era un animatore indiscusso nonostante quella vaga timidezza che lo accompagna da quando era piccolo: raccontava dello sciopero delle “tabacchine”, lui c’era stato.

Di quei bambini piccolissimi passati attraverso il cancello a due madri che dovevano allattarli. Due madri in lotta, ovviamente. Lo sciopero! Capivo quella sua animazione, Ninuccio ormai è un uomo ma per me rimane sempre un ragazzino riccio e sorridente e con gli occhi timidi. Quello che abbassa lo sguardo quando vede la ragazzina che gli piace e che in chiesa si va a mettere nelle ultime file per non farsi vedere dagli amici di papà. Tuttavia non riuscivo ancora bene a comprendere le ragioni di tanta animazione: lui un lavoro ce l’ha, sta bene, e nostra madre è contenta perché non deve lavorare la terra come lei, come papà.

Perché protestare? Perché questi propositi? Tu non capisci! Ribatteva a me e a mamma. Siete egoiste, tutte e due. Io lotto per la libertà, io lotto per il socialismo! Di socialismo io non sapevo nulla. Spolverando in camera sua mi era passato per le mani questo libro, “Manifesto del partito comunista”, e avevo pensato che quella volta nelle campagne di Eboli molti di questi comunisti con la bandiera rossa erano stati picchiati dalla polizia, eppure sventolavano orgogliosi quel vessillo, avevano un’aria fiera che in qualche modo mi incuriosiva ed affascinava, ma ero molto piccola.

Avevo uno strano, un brutto presentimento. Lo avevo guardato scendere fin sotto al portone e lo avevo seguito con lo sguardo fino all’angolo, fino a quando avevo visto scomparire quel giovane alto, ‘riccissimo’ e con lo sguardo dolce, con i pantaloni grigi e la camicia rosa comprata da mia madre. Camminava fiero e con le mani in tasca. Chiamo Giovanni e gli dico: «seguilo per favore, non lo perdere di vista». Mamma dice che i negozi sono chiusi, c’è una strana aria e Teresa non è andata all’asilo perché è chiuso anche quello. Da sopra la sento parlare con una signora, la sua voce inconfondibile.

Sale, mi dice di aver incrociato Ninuccio: «ma stu uaglion’ mangia e non ingrassa mai, portagli un panino». Io, Giovanni e Teresa scendiamo. È una bolgia. Andiamo alla stazione. Nino è lì, gli do un panino con la mortadella, sorride. Lo prego, lo scongiuro: vieni a casa! Accarezza Teresa e torna tra i suoi compagni. C’è uno striscione: “Studenti e operai uniti nella lotta!“. Mi rinfranco in qualche modo, sono in molti, caparbi, giovani. Niente da fare, quest’ansia non mi abbandona. Comincio a sentire dei botti in lontananza, dalla stazione, da  Belvedere si vede una nube di fumo alzarsi alta in cielo.

Mia madre parla ancora con quella signora, Giovanni è rimasto con i manifestanti, Teresa sta con lei. Passa un’ambulanza con un assordante rumore di sirene, il rosso mi acceca, divento sorda e non sento più nulla, comincio a correrle dietro come una pazza, ossessionata, a divincolarmi tra la molta gente che nemmeno si cura di me, respiro a fatica, la mente perduta. Un pezzo di cuore lasciato per strada insieme a quelle scarpe perse nella corsa. Giovanni mi vede, scalza che corro e piango. “Che succede!” hanno ucciso Carmine, dico. “Ma no!” Mi rassicura, andiamo alla Salus.

È una pagina nera, un libro strappato, decine e decine di scioperanti feriti, anche donne. Percosse, doloranti, gente fasciata quasi tutti giovani. Piango disperata, esce una barella da una stanza trascinata da infermieri, sopra un corpo immobile con delle fasce sulla faccia e un ciuffo di capelli ricci, nerissimi, che esce dal lenzuolo. Mi butto su quel corpo come spinta da qualcuno con veemenza, un prete mi ferma “non si può signorina”. Il corpo era immobile, avrei voluto si muovesse ma la forza del pensiero, la dirompenza del pianto, l’amore incondizionato non bastava più”.

Da un racconto di Liliana Citro