“Dopo il crollo dell’impero ottomano e la fine della prima guerra mondiale le potenze coloniali tracciano a tavolino i confini del Medio Oriente. Nei decenni successivi avidità e ambizioni di potere generano colpi di Stato militari, regimi corrotti, leader autoritari e ingerenze straniere. La tirannia, le invasioni e il terrorismo si alimentano a vicenda in un circolo vizioso, a danno delle popolazioni civili“.
Comincia così Notturno, il film che Gianfranco Rosi ha girato, senza scrivere una sola parola, nei tre anni trascorsi lungo i confini di Iraq, Kurdistan, Siria e Libano. Nella scena iniziale osserviamo soldati, appartenenti a chissà quale esercito, mentre si addestrano su di un campo, chissà quale. Perché per Rosi il dove accade conta meno del cosa accade, specie se quello che accade non cambia da un luogo ad un altro, in luoghi che prima della guerra costituivano un unico luogo.
La telecamera fissa la scena intermittente, sempre uguale, come il rintocco di un orologio, preciso, monotono, e tra un battaglione e l’altro resta l’eco di un urlo, di un suono che si ripete a intervalli regolari. Come la guerra in Medio Oriente. Ora c’è. Poi sembra arrestarsi e il nemico a un tratto diventa invisibile, come nel deserto dei tartari. Soldati di guardia su di una sconfinata e deserta pianura. Ma è solo un momento, che può durare mesi, puntualmente seguito da una nuova distruzione.
Notturno di Rosi, se non tutto, è un lavoro in gran parte “di montaggio”, di scene meravigliose che per qualcuno, a Venezia (dove il film è stato presentato nel 2020), sono risultate addirittura offensive, come se il fattore estetico debba necessariamente essere altra cosa dal racconto, specie se di guerra, di paura, di miseria e occupazione; scene girate (probabilmente moltissime) e selezionate (probabilmente pochissime) dal regista e assemblate da Jacopo Quadri che con Rosi fa squadra sin da Sacro GRA, il documentario che nel 2013 gli valse il Leone d’oro. Quello era un documentario, diversamente da Fuocoammare e da Notturno, film documentari, o docufilm, che possono far storcere il naso per la post produzione, che estetizza laddove si dovrebbe semplicemente mostrare la realtà per quella che è.
Ma un’opera, di realismo o di fiction che sia, esula da chi la produce e dalla stessa critica, almeno quella “morale”. Notturno, tecnicamente, è un film perfetto, diviso in capitoli che raccontano il dolore di quella Terra attraverso immagini sublimi (risiederebbe qui la colpa del regista) che accostano l’opera di Rosi alla migliore letteratura, non solo filmica. Una madre piange la morte del figlio. Un uomo in piena notte indossa tunica e tamburo e va in strada a cantare il risveglio dei fedeli che possono finalmente interrompere il digiuno del ramadan e l’astinenza sessuale, per poi ricominciare, dall’alba al tramonto, a privarsi nuovamente di cibo e piaceri del corpo, in modo ciclico, regolare, sempre diverso (perché il calendario islamico è composto da 355 giorni, dieci in meno rispetto a quello cristiano) eppure sempre uguale, puntuale come la guerra.
“Il Paese ha intrapreso la strada della morte. Possiamo voltare questa pagina come tutte le altre, ma rimarrà a lungo nei nostri ricordi. Stiamo correndo, non sappiamo dove stiamo andando né quando arriveremo. Tutto è perduto in questo Paese. L’esercito straniero è entrato nel Paese per liberarlo, ma lo ha occupato. L’invasione americana ha distrutto ogni cosa bella. L’invasione ha causato problemi e una guerra civile. I vicini hanno iniziato a uccidersi tra di loro, in molti sono stati deportati. Le persone fuggivano terrorizzate dai massacri. Le strade pullulavano di cadaveri, autobombe, cinture esplosive. Abbiamo perso ogni sicurezza, si sono infiltrate le organizzazioni terroristiche, al-Qaida e l’ISIS uccidevano in base all’etnia. Volevano portare il Paese nel Medioevo, hanno costruito uno stato di morte, dove le donne erano vendute come bottino di guerra. Tutto è perduto. Mi aspettavo una primavera meravigliosa, di rose, pace e amore. Invece è diventata una primavera di guerre, in cui uomini dello stesso Paese si uccidono tra di loro. Una primavera di macerie e di tenebre, una primavera di governi che cercano di anteporre gli interessi personali a quelli dei cittadini. Anche tu avrai un Dio, Patria mia…”
È questo il monologo di una pièce teatrale che alcuni pazienti recitano a scopo terapeutico, ripresi da Rosi quasi per caso e gestiti da un medico-regista, autore dei testi da imparare a memoria che raccontano la situazione del Medio Oriente come our land, di una terra senza confini. E poi ci sono i bambini, i loro disegni che parlano di morte, perché i bambini disegnano ciò che vedono, come ne I ragazzi dell’olivo, la canzone scritta e interpretata da I Nomadi più di trent’anni fa e che parlava della Palestina e delle continue guerriglie con gli israeliani:
“In quei disegni senza più serenità, niente aquiloni, solo amare realtà, niente più azzurri che colorano il cielo, solo pastelli che sporcan tutto nero. In quei disegni senza più umanità, niente sorrisi, solo gesti di libertà, niente più prati, ma strade con barriere, solo guerrieri che agitano bandiere. Questa guerra è uno strano gioco, consuma gente, vita a poco a poco, con i sassi contro quelle bombe, quelle grida contro quegli spari“. È il racconto di un altro Paese e di un’altra guerra, che continua, a intervalli regolari. Come il rintocco di un orologio.
Tornando al film di Rosi, i disegni dei bambini ripresi dalla telecamera raffigurano uomini con lunghe barbe nere, con in mano un macete, ed altri senza un braccio, sanguinanti, con donne in lacrime sullo sfondo. “Questi sono gli uomini dell’ISIS”, racconta un bambino balbuziente mentre continua a disegnare, “tagliavano la testa e uccidevano gli yazidi, li strangolavano. Queste sono le teste mozzate degli yazidi. L’ISIS diceva: mangiatele. Bruciavano vivi gli yazidi. Uccidevano tutti quelli che vedevano. Ed io avevo paura. Le donne venivano incatenate, gli legavano le mani, le picchiavano e le impiccavano“. Il suo racconto paradossalmente sembra lucido, come se non potesse essere triste, perché un bambino che non è mai stato felice non sa cosa sia la felicità. Il suo è un mondo di morte, di massacri, senza alcun termine di paragone.
“Se il tuo Dio ci avesse davvero amati, non ci avrebbe fatto tutto questo“. È il messaggio di una donna rapita dall’ISIS inviato di nascosto a sua madre da un cellulare, ed è un messaggio sul dubbio, che riguarda una secolarizzazione mai compiuta e forse impossibile da compiersi. Ed è ciò che percepisce anche il Pastore Tomas Ericsson in un altro film, intitolato Luci d’inverno. Nell’epilogo del capolavoro di Ingmar Bergman il Pastore Tomas inizia la funzione con le seguenti parole: “Santo, santo, santo, il Signore Dio degli eserciti” e il suo è un altro messaggio (altrettanto chiaro, come nell’opera di Rosi in cui tutto è perduto) sull’inutilità di Dio.