Il dramma delle bare di Bergamo

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È impossibile non pensare alle bare di Bergamo. L’epicentro italiano della pandemia.
4000 casi positivi da Coronavirus, centinaia di nuovi contagi al giorno e 400 morti. Come se fossimo in guerra. I bergamaschi non hanno più nemmeno una bara su cui piangere i propri cari e si continuano a stipare i feretri dentro alle tendopoli montate fuori dagli ospedali, in attesa di essere caricate sulle camionette dei militari e condotti ai crematori lontano dagli affetti.

Nella città, a quanto pare, regna un silenzio irreale, nemmeno le ambulanze hanno più le sirene accese, non serve, non c’è più nessuno in giro. I medici di famiglia sono contagiati, gli operatori sanitari in quarantena e i pazienti che arrivano in ospedale in numero esagerato vengono ammassati dove capita, nell’atrio del pronto soccorso, in sala parto, nei corridoi. Si richiede l’aiuto di personale medico da altre regioni d’Italia e pure dall’estero. Abbiamo avuto calamità naturali che hanno messo in ginocchio molte volte interi pezzi d’Italia, ma vedere tutti quei morti per un’epidemia, che era oramai solo un ricordo da testo scolastico, fa ancora più impressione.

Ai nostri nonni è toccata una guerra. Ai nostri genitori gli anni di piombo. A noi è toccato questo. E questo è il dolore immane che dobbiamo attraversare. Vedendo quelle bare non si può evitare di pensare ai saluti che non ci sono stati, a tutti gli ultimi abbracci volati nell’aria, alla paura di affrontare tutto da soli, all’ultimo respiro, al dolore di non poter accudire, al non poter salutare, al dover lasciare andare. Questa è la spietatezza di questo virus, ti lascia completamente solo.

Però la città di Bergamo è anche fatta di gente coriacea, volitiva, e ieri in un bel messaggio di speranza un ascoltatore di Radio Deejay ha detto che i genitori a Bergamo imparano ai propri figli fin da piccoli che: “non ce la faccio” – non si può dire. “Non ci riesco”- non esiste. “Sono stanco”- non è mai abbastanza. Cresci così, un po’ chiuso, un po’ con la convinzione di non essere mai all’altezza. Ecco come li riconosci quelli di Bergamo.

Quelli che poi ce la fanno. E noi a Battipaglia e nella piana del Sele abbiamo avuto prova del loro carattere, della loro intelligenza, della loro abnegazione al lavoro, perché da oltre venti anni i bergamaschi sono scesi giù al Sud rivoluzionando completamente il modo che avevamo di coltivare la terra. Hanno dato l’impulso alla creazione di un distretto agroindustriale da migliaia di posti di lavoro, che è un fiore all’occhiello italiano. E alla fine della pandemia, che arriverà, proprio da qui ripartiremo.

Paolo Giordano, in un suo libro, ha scritto che nel contagio siamo un organismo unico, una comunità che comprende l’interezza degli esseri umani. Nel contagio la mancanza di solidarietà è prima di tutto un difetto d’immaginazione. Come si fa a dare forza, quindi, a quelli di Bergamo? Come si fa a dirgli che andrà tutto bene? Come si fa a ridere, scherzare sapendo di loro? Come si fa a restare indifferenti? Si fa per gli altri, per dare fiducia, per non dimenticarli, stanno vivendo un inferno e hanno bisogno di tutto il nostro sostegno e di tutta la nostra solidarietà umana.