Il paziente zero-ottodueotto

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Una Battipaglia più deserta degli inverni degli anni ’80, quando per un caffè serale a botta sicura occorreva allontanarsi di poco, appena quella ventina di chilometri di sola andata per arrivare all’autogrill tra Campagna e Contursi. Una Battipaglia a saracinesche serrate che non si vedeva dagli ultimi ferragosti in lire, quando per i commercianti le ferie duravano ancora qualche minuto in più del tempo occorrente ad affiggere il cartello di chiusura.

Insomma: una Battipaglia non proprio inedita ma nemmeno scontata. Una ristampa di pregio, va’. Quel libro di cui già hai scorso qualche riga ma che ora ti obbligano a leggere tutto. E che devi imparare per bene: ché poi t’interrogano e, se è il caso, bocciano.
Siamo partiti con la certezza di farcela senza traumi permanenti, ma chissà. A me pare che dopo appena cinque giorni già stiamo sognando anche solo un mezz’ora, al sole, su una panchina di piazza Amendola, immobili e raschianti come quei vecchietti che quando s’era bambini parevano stancarsi finanche a respirare, ma che poi scattavano come centrometristi per scipparci il pallone e bucarcelo sotto agli occhi.

Diciamocelo: altro che applausi e inni al balcone, è tutto un fare buon viso a cattivo gioco. In realtà già abbiamo le allucinazioni. Ieri sera ho scambiato il megafono della Protezione Civile con quello del ‘patanaro’ e gli ho lanciato cinque euro dal balcone chiedendogli di lasciare la busta davanti al portone. Al telefono un mio amico giurava di essere stato insultato dalla statua del Milite Ignoto a piazza della Repubblica mentre tornava dalla farmacia: dice che stavano venendo alle mani, ma il busto di Ferdinando II ha ricordato la distanza di sicurezza di un metro e non se n’è fatto più niente.

Ci si aggrappa ai ricordi, alla nostalgia. Un tizio al supermercato ha rubato una cialda di caffè e se l’è sgranocchiata seduto su una balletta d’acqua, fingendo ci fosse un barman a servirgliela. Un altro, un frequentatore incallito della movida serale, è stato beccato mentre nei dintorni di un bar chiuso leccava briciole di patatine di un aperitivo di Carnevale. Un altro ancora ha infilato museruola e pelliccetta ecologica della moglie e per mezza giornata ha scorrazzato a quattro zampe per la villa comunale fingendosi un pastore tedesco: s’è tradito quando, anziché riportare il bastoncino, per precauzione l’ha spedito per corriere.

Cinque giorni, e siamo già al punto che ci mancano i nostri usuali cercatori di spiccioli in strada, il tamarro con l’Alfa truccata scorrazzante a via Mazzini con la techno nei sub a palla, il fischio del vigile quando sei in doppia fila solo da sei ore e blocchi il traffico fino a Bellizzi ma rispondi “e che diamine, un attimo, saluto st’amico e mi sposto”. E i cinesi: ci mancano i cinesi.

È oltre un mese che hanno chiuso negozi e ristoranti, hanno ritirato i figli da scuola, sono spariti dalle strade. Mentre noi li cercavamo per accusarli e malmenarli, loro si mettevano in quarantena spontanea per rispetto della nazione che li ospitava. A noi, invece, sono serviti appena due decreti consecutivi e milioni di spot di sensibilizzazione sparati ovunque per costringerci a fare una cosa che già da settimane sarebbe dovuta scaturire dal buonsenso. Perché in fondo in fondo quelli là, gli ottimisti, i fiduciosi, comunque hanno ragione: quando ci mettiamo, noi, siamo un popolo meraviglioso.