“Citofonami tra vent’anni”

0
2567
Tempo di lettura: 2 minuti

Quando ero piccolo mio padre ha cambiato casa spesso ma i ricordi d’infanzia sono legati a un appartamento in cui abbiamo vissuto a Bellizzi, dove ho fatto le scuole elementari. Anni fa passai per la strada che costeggia il palazzo dove abitammo e tranne una scritta vergata con uno spray di fianco al portone riportante la frase “Salvini coglione” nulla era cambiato. Ho pensato di scendere e dare uno sguardo ai cognomi dei citofoni pensando di trovare quelli che conoscevo.

Fossi stato l’attore di uno di quei film americani avrei suonato al citofono dell’appartamento posto all’ultimo piano e avrei chiesto di salire per vedere la casa con il terrazzo e con la soffitta in cui si celavano vecchi segreti. Nei film americani di solito la porta la apre una coppia giovane e sorridente, assolutamente comprensiva rispetto a quella richiesta carica di nostalgia, in quei film chissà perché le coppie vanno ad aprire la porta insieme e sono sempre bellissimi.

Non ho provato ovviamente, sono timido da fare schifo ma soprattutto non volevo scoprire che la parete su cui mia madre ci segnava l’altezza fosse stata tinteggiata. Quando è morto Lucio Dalla, l’effetto è stato lo stesso: “cazzo perché il tempo passa così velocemente”. Perché dal primo ascolto di “Cara” si passa a perdere l’uomo che ha scritto quel capolavoro.
Per me Dalla doveva rimanere lì, come la parete in cui mia madre misurava i nostri sviluppi. Era parte del mio paesaggio interiore. Dei miei ricordi. Di quello che ero e che sono diventato.

Ero convinto che ci sarebbe sempre stato nella mia vita, e perciò non sono mai stato a un suo concerto, pensavo ci andrò la prossima volta, lo ascolterò nei suoi scat improvvisi al prossimo passaggio in zona, quando sarà al piano o al clarinetto lo ammirerò. Avrò tutto il tempo che voglio per cantare “L’anno che verrà” a squarciagola. “L’anno che verrà” che narra dell’incapacità di comunicare, del desiderio di una vita libera, del grande bisogno di poter continuare a sperare. Questa canzone sta dentro a un disco che ha quarant’anni e in quell’album c’è “Anna e Marco” “Stella di Mare” “Cosa sarà” “Tango” “Milano” “L’Ultima Luna”.

E Dalla tra i molti dettagli con cui dimostra il suo genio c’è il raccontare la stessa banalissima cosa – la fine di un amore – col massimo dello struggimento e col massimo della beffa. Perché gli amori per Dalla sono tutti di una bellezza assoluta, quella che contiene tutta la grandezza e la miseria del mondo, quell’album è un concentrato di meraviglie, tra cui Ron che dice che quel disco lì per Dalla è come la bellezza per certe donne. Dice: era il suo momento di grazia. Perché “Anna e Marco” è la più cinematografica canzone d’amore della storia della musica italiana ma anche Stella di mare con quel “se non ti avessi uscirei fuori a comprarti” ma anche Milano, Milano vicino all’Europa, Milano che, quando piange, piange davvero.

Nel 1979 erano cinque anni che Dalla aveva già accumulato abbastanza capolavori per tre vite. Nelle canzoni scritte da un omosessuale si parla di cosa c’entra l’amore con l’ambizione, di cosa c’entra l’amore con l’abitudine, di cosa c’entra l’amore con l’inadeguatezza, di cosa c’entra l’amore coi segreti, e le bugie, e le porte chiuse e chi sta dentro e chi rimane fuori. Dalla è questo per me, è una parete bianca su cui si segnavano i progressi di quattro bambini ed entrambi per fortuna sono eterni.