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1.

L’impatto con le pareti è uno schiaffo di muffa imbiancata. Ai vetri degli sportelli, colla e cenci di fogli strappati. Tre soli clienti in fila: facce morte, il numerino sgualcito tra le dita.

Sediamo a un tavolino tondo, in una non-sala riunioni presa da un angolo fra i muri e chiusa di taglio dal plexiglas. Fogli disseminati, bicchierini vuoti di caffè.

Incredulo, il direttore si rigira tra le mani quella carta d’identità: Marco Iannone, nato a Napoli il tot del tot del ’49. Coniugato. Imprenditore. La conferma che il malloppo di grasso e riccioli che gli siede di fronte è proprio lui, l’amministratore delegato della Maiadero Acciai S.p.A. In numeri, secondo l’ultimo bilancio, duecento milioni d’euro di fatturato. Tredici di utile netto. Cinquanta di patrimonio immobiliare disseminato nel mondo, da un albergo a Sidney a un centro sportivo a Seul.

Fosse astuto, allora, si chiederebbe perché l’ottava industria siderurgica del mondo ha scelto di aprire un conto lì, alla semisconosciuta Cassa Commerciale del Golfo.

Ma Fiorenzo Porri non lo è, astuto. Peggio: è al verde. Il poker gli piace da quando eravamo insieme al ragioneria. Col tempo, cocaina e puttane hanno fatto il resto.

Conan, penna in mano, va dritto e schiumoso come un siluro. Ci abbiamo dedicato due giorni interi, alla firma. Lui si esercitava, io al computer rifacevo il documento di Iannone copiandolo dalle fotocopie che avevo in ufficio. Poi, la stampa su un cartoncino ruvido e la fototessera a Conan vestito e pettinato uguale. Stop, arrêter. Allons à inculer.

A firme finite Porri s’alza con uno struscio di rotelle.

«Permettano un attimo» dice, l’occhio a imbuto sulla fotocopiatrice in fondo. Non vorrebbe togliere il documento dal foderino, ma sulla plastica trasparente c’è una macchia d’inchiostro che copre un tratto di numero. Prova a sfilarlo, allora. Ci riprova, e ancora. Ma niente. I colpetti di colla che ho messo per incastrarcelo paiono tenere.

Conan sbuffa, allarga le braccia.

«Samir!» mi urla.

Io sono in piedi, sulla non-porta data dal vuoto fra il plexiglas. Tutto indiano, col turbante, i calzoni a sbuffo e il gilet ricamato. Tre doccette solari per il colorito necessario.

Accorro, cartella sottobraccio.

«Dica, signore.»

«Possibile che non teniamo appresso una fotocopia della mia carta d’identità?»

Apro, caccio fogli, qualcuno mi vola via. «Come no, signore. Non me l’ha chiesta, signore.» Raccolgo da terra e metto sul tavolo. «Ecco qua, signore. Quante ne servono, signore?»

Porri fa un ghigno senza labbra, un graffio nella faccia a cono. Sfila due fogli dal mucchio, se li mette davanti.

«Queste basteranno, grazie.» Le inserisce nel fascicolo e ci restituisce l’originale. Si sfiora soddisfatto la pelata deforme. «Ora andiamo dal funzionario di sala, le dò le credenziali per l’accesso da internet.»

Si allontanano lenti, i passi zittiti dalla moquette. Il climatizzatore fa un ronzio grattato e un tanfo da angolo ortofrutta.

Non li seguo, non subito. Ho le gambe che mi tremano.

Conan è stato perfetto. Interpretazione ottima, firma identica. Il difficile era il finale: esibire una carta d’identità falsa ma mettere nel dossier copie di quella vera. A prova di qualunque dubbio, confronto, ispezione. Tecnicamente ineccepibili.

Guardo fuori. So che c’è un sole pieno, ma la visuale è ingrigita dal vetro.

È la prima opera di mistificazione delle banche: entri, ti accolgono, prospettano e promettono.

Intanto, non viste, ti spengono i colori.

2.

Mi chiamo Pericle, mi chiamavano Pepe, ora sono Esubero.

Sei mesi fa Iannone ha preso un bilancio e ha visto se oltre ai soliti milioni di utile gli uscivano pure gli spiccioli per l’elicottero nuovo. Pareva di no. Cosicché ha chiuso la linea dei profilati da nastro e ha cominciato a importarli già fatti dall’Estonia, da piccoli fabbri affamati che riciclano il ferro dagli arsenali in disuso. Prodotti di scarto, nessuna certificazione di sicurezza. Ma un’impalcatura crollata in più o in meno fa poca differenza, in termini di notizia. La fa, piuttosto – e bella sostanziosa – in termini di profitto.

Ennesimo licenziamento collettivo, allora. Richiesta di mobilità, allontanamento morbido, tre anni a casa con il sussidio statale. Poi, puf, serenamente in mezzo a una strada.

Inizialmente, stavolta, s’era in venticinque; ma ventuno hanno accettato la proposta di mettersi in cooperativa e lavorare da esterni: subappalto per il taglio a fiamma e la foratura, prezzi imposti, scadenze folli.

I trombati definitivi, allora, sono diventati quattro: Sandro Cavallaro delle presse, Orietta Vigneto dei collaudi, il venditore Leopoldo Pennino.

E io.

Ci sono entrato al ballottaggio, in verità. Dei due contabili all’ufficio vendite uno era in più. E quell’uno era inizialmente anonimo, da individuare. Ma Di Saverio, il vecchio col panciotto, quello che ancora scrive le lettere con l’Olivetti 44, sta là da quarant’anni. E ha due figli a carico, due gemelli appena avuti dalla seconda moglie polacca. Una corposa differenza d’età; ma perfettamente annullabile da uno stipendio discreto e una casa intestata a lei.

Fuori Pepe, allora. Nessun demerito, nessuna scelta, nessuna colpa. La graduatoria la fa la legge, ce n’era una per reparto, io ero piazzato ultimo su due soli pretendenti.

Il giorno in cui l’ho saputo mi sono detto che mi sarei fatto forza, che avrei trovato subito altro, che non avrei dato a nessuno la soddisfazione di vedermi a terra.

In realtà mi sentivo come un rapinato alla posta obbligato a restare in coda. Allora sono uscito dall’ufficio tre ore prima e ho fatto venti chilometri di macchina.

Pioveva col sole, che è il clima ideale per chi già è confuso di suo.

In realtà non ho parecchie persone con cui sfogarmi, l’ultima convivenza breve è finita sei mesi fa. A lei non andava che perdessi tempo a trovare due calzini dello stesso colore, a me che avessimo sostituito il balcone con una piantagione di timo e germogli di soia.

Gli amici, poi. I pochi sopravvissuti al periodo di teppa mi sono sfuggiti di mano o sposandosi o trovando lavoro altrove. Molto altrove.

Mi resta solo mio padre, insomma.

Sono arrivato lì un’ora dopo, con in corpo due grappe a stomaco vuoto. Ho parcheggiato, ho attraversato il portone e sono andato a trovarlo. Come dire: anche nella merda più completa, c’è sempre una parte di noi che sa come peggiorarsi la giornata.

Mi è comparso davanti profumato e sbarbato. I capelli bianchi raccolti nel codino, la camicia aperta sui peli in petto. Sereno e irridente, come al solito.

«Sono stato licenziato» gli ho detto. «Non sapevo a chi dirlo.»

«Ottimo. L’aria aperta è molto più accattivante di una scrivania. Io ne so qualcosa.»

D’istinto volevo fumare, ho dovuto evitarlo.

«Mi chiedevo… Col laboratorio d’orafo hai sempre avuto un bel giro, conosci ancora gente importante. Non è che puoi rimediarmi qualcosa? Anche temporanea, giusto per sopravvivere.»

Il suo ghigno odioso, le solite fossette in ombra sotto le gote.

«Sopravvivere? E perché? Hai ancora la liquidazione, mi pare. Goditi quella e poi ne riparliamo.»

«Quale liquidazione?» Ho fatto gli occhi di fuoco, l’avrei afferrato al petto. «Sì e no mi restano da incassare duemila euro. Il resto me la sono fatto anticipare un anno fa, te ne sei scordato? Ventimila euro, papà. Gli stessi che m’hai rubato con la scusa dell’investimento sicuro.»

Lui ha accusato il colpo, pareva sinceramente mortificato. È rimasto in silenzio a disegnare cerchi invisibili sul tavolo.

«Li ho spesi in materiali, e lo sai.»

«Come no. Un carico d’oro da otto carati che poi sui gioielli hai marchiato per diciotto. Totale, tre denunce per truffa aggravata.»

«Sapevo come farlo e l’ho fatto. Se avesse funzionato ci saremmo sistemati tutti. Io, tu. Tua sorella.»

Sull’ultima frase lui ha abbassato la testa e io ho guardato altrove. Entrambi avremmo evitato di parlarne, non era il momento giusto. Non lo è mai.

«Invece non ha funzionato, papà. Tu sei in galera e io al verde. E mia sorella è morta.»

Mi sono alzato rumoroso, poi ho fatto un cenno al secondino: vieni, accorri, conversazione finita. Riportalo nella fogna da cui è esondato.

«Pepe…» si è soffermato lui. «Non ti ho derubato. Un conto è essere ladri, un altro usare ciò che si compra con i soldi altrui.»

«E che differenza c’è?»

«La stessa che passa tra la pesca all’amo e quella a strascico. La prospettiva etica.»

Sono rimasto immobile, raggelato. Uno sbuffo, le braccia aperte.

«Dici? Mi dispiace, io questa prospettiva la vedo identica.»

Lui mi ha fissato, gli occhi piccoli come schegge.

«No, non lo è. Datti da fare, là fuori, e lo capirai.»

3.

Cinque settimane prima di andarmene ho pianto. La quarta ho girato per i reparti cercando di organizzarmi uno sciopero a sostegno. La terza c’è stato, lo sciopero: io solo, seduto sul muretto al cancello. La seconda – via tutti, a sera inoltrata – ho fatto gli straordinari. Ore intere a tracciare un segno sul pavimento. Una posizione da cui, fingendo di telefonare, potevo filmare la mia tastiera col cellulare senza guardare nell’obiettivo.

Poi è arrivata l’ultima, di settimana. Una mattina ho sbagliato la password d’accesso al sistema per cinque volte di fila. Il computer si è bloccato; è corso Di Donna, il programmatore. Maglietta aderente sui muscoli, basette a punta, stecca di liquirizia tra i denti.

«Otto anni che sei qui e ancora sbagli la password?» ha sbuffato prima di sedersi al mio posto.

«Non rompermi le palle proprio gli ultimi giorni» ho detto. Mi sono allontanato, ho preso il cellulare, l’ho messo all’orecchio. «È inizio semestre, me l’hai appena cambiata, figurati se me la ricordavo. E pensa che tra un po’ devi pure cancellarla.»

Per ripristinarmela ha dovuto scrivere la sua, quella madre. Gli ho filmato le dita, poi a casa ho riguardato il video rallentato: acquamarina1870.

Copiandomi le cartelle sul portatile posso accederci da Internet, al programma contabile della Maiadero. Non ho più la mia password, ma poco male. Ho quella generale, dell’intero sistema.

Lì è un po’ più complicato, la cambiano ogni due mesi anziché ogni sei.

Contando da adesso durerà altri quaranta giorni.

A me, voglia Iddio, ne occorrono assai meno.

Seconda parte

Terza parte