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La seconda parte del racconto C.C.C.P. (Calmo Comodo Colpaccio Proletario). Qui la prima parte.

4.

All’inizio l’ho fatto senza un’intenzione precisa. Fregare la password madre del sistema, intendo. Avevo genericamente pensato a una vendetta, a una serie di dispetti sparsi. Infiltrarmi da fuori, provocare disagi: cancellare mail, sballare registrazioni contabili, fare casino in generale. L’infruttuosa rivincita di un disoccupato nero.

Poi, però, mentre ero già abbondantemente fuori e immerso nella distribuzione dei curriculum, è entrata in ballo Orietta.

Lei è stata l’ultima a uscire dalla Maiadero, ha rinunciato all’indennità di preavviso. Li ha fatti friggere fino alla fine, minacciando di non aderire alla mobilità e di impugnare il licenziamento. Ha tirato via solo duemila euro di buonuscita in più rispetto agli altri, ma vuoi mettere la soddisfazione.

Ha quarant’anni, lei. Il marito stronzo, un figlio di dieci con un rene guasto. Per tutto il tempo in cui abbiamo lavorato insieme non l’ho mai vista sprecare un centesimo per un caffè, o un buono pasto per la mensa interna. “Le cure costano” diceva, un occhio al monitor e l’altro alle torsioni dei monconi incastrati fra le morse.

La sera stessa del suo ultimo turno in fabbrica ha indetto una mini-riunione di saluto globale. Io, lei, Sandro Cavallaro e Leopoldo Pennino. Un po’ brilli e un po’ nostalgici, al tavolino del bar Trudy’s. I fantastici quatti-quatti.

Fra consolazioni e pettegolezzi Orietta ha rivelato le news del momento. S’è stretta in petto il cardigan, pudica per la scollatura prepotente della camicetta vecchia e stretta.

«Non c’erano i soldi per mantenerci, però il dodici luglio imbarcano per il Canada duemila tonnellate di inox. Contorti, come minimo.»

A Pennino, il venditore, gli si è moltiplicato il tic agli occhi: strizzava, riapriva e ristrizzava con la velocità di un cyborg.

«Inox?» ha chiesto, grattandosi la barba tinta. «Ammazza. Che lega?»

«AISI 316. Principalmente travi, ma anche lamiere, piastre e tondini. Non so se sapete del progetto “Ironworld”, a Toronto. Un trittico di grattacieli ispirati alla torre Eiffel. Saranno i più alti del mondo.»

«Il più alti del momento» sono intervenuto io, in mano un Campari e il quarto mozzicone consecutivo. «Ormai è una corsa folle, una Babele senza un dio da braccare. Tempo qualche mese e sarà superato dal delirio del solito sceicco annoiato. Poi dalla spocchia d’un qualche imprenditore esaltato.»

Cavallaro se n’è stato un po’ in silenzio, il mento sulle mani rotte da anni di pressa. È vedovo da due anni, figli sposati e felici all’estero. Poteva perdere solo il lavoro. E l’ha perso.

«Figli di puttana» ha sbottato alla fine. «E pensare che noi non sappiamo se domani metteremo tavola. Ci sputano sulla dignità per giocare coi miliardi.»

Intorno c’era un vento caldo, traffico rado per l’ora tarda. Il cameriere accatastava i tavolini vuoti con stridii di ferro e impazienza. L’ho chiamato col dito, ho ordinato il bis. E ho imbeccato un’altra sigaretta.

Ho guardato Pennino.

«Duemila tonnellate» ho detto. «A quanto avranno chiuso, secondo te? Due e ottanta, tre al chilo?»

Lui ha scrollato la testa, sopracciglia alzate.

«No, macché. Massimo due e cinquanta, ora come ora. Tutta l’ex area Comecon sta là arrapatissima, tirano giù prezzi da fame. O ti allinei a loro o resti senza clienti.»

«Fanno comunque cinque milioni di euro. Va be’… uno dovremmo perderlo, ma ne resterebbero comunque quattro. Più precisamente, tolte le spese, tre milioni e ottocentocinquanta. Una bella botta, no? Immaginate che ci faremmo, con quasi ottocentomila euro a testa.»

I più nemmeno m’hanno sentito, ogni pausa veniva buona per perdersi in pensieri di drammaticità e futuro marcio. Orietta invece mi guardava divertita, gli occhi come guizzi d’un fuoco nero.

Mi è arrivato il bicchiere, ho tirato un sorso lungo.

Silenzio, ancora. Pesto, irreale.

Lei ha provato a romperlo: «Pepe… brutta cosa, un ragioniere sbronzo. Di che vai delirando? Cinque milioni, quattro milioni, uno lo perdiamo…»

«Niente. Così, sognavo.»

«Allora sogna bene. Se proprio ti va di sparare puttanate, i tre milioni e rotti, là, diviso quattro, farebbero poco meno di un milione a testa.»

«Dici?» Ho socchiuso gli occhi, l’alcol in pieno circolo. Per qualche attimo, un mondo pacato e meraviglioso.

Mi sono alzato, oscillante.

La prospettiva etica.

Datti da fare, là fuori, e capirai.

Li ho fissati tutti:

«In realtà, se ci state, saremmo in cinque.»

5.

Conan lo conobbi a febbraio, quattro mesi fa. Una serata di karaoke con vecchi compagni di scuola, una rimpatriata di pizza e aneddoti pompati: quel giorno che uccisi il professore, quell’altro che violentai sei bidelle.

Era il cantante e l’animatore, lui. Quello che sbatteva il microfono fra i tavoli, metteva un pezzo, diceva “tie’, canta tu”. Ma poi non è che li abbandonasse, quegli audaci stonatori. Li incoraggiava, li incitava, li aiutava. Un’agonia.

Faceva imitazioni, anche. Sui capelli a spazzola piazzava ora una parrucca ora l’altra: lo chignon di Mina, e vai con l’importante è-è-è-è-è-è-finire. Berretto militare di Vasco, il ciuffo di Little Tony, Ray-Ban e giacca nera dei Blues Brothers. Everybody needs somebody, to love.

Poi fu il turno di Cocciante. Non gli somigliava per niente, né fisicamente né per timbro di voce. Ma la vista del naso gommoso, degli occhi a fessura fra palpebre e gote, di quei riccioli molli sulla stazza da lottatore di sumo, per un po’ mi lasciarono spiazzato.

Mi puntò e m’invitò a cantare. Lo feci in duetto con tale Ester, la compagna di banco del terzo anno. Molto più attraente ora che allora, nonostante un po’ di ricrescita di capelli bianchi giusto sulla riga al centro. Ma almeno, dopo trent’anni, per via dei due parti aveva montato una buona quarta di seno. E non puzzava più di naftalina.

A metà canzone le misi la lingua in bocca, ricambiato. Poi ordinai un’altra birra e ce ne andammo in macchina.

Tre minuti dopo, a calzoni calati e lei già all’opera, scesi improvvisamente dall’auto. Quando tornai, sbronzo e orgoglioso, avevo in mano il biglietto da visita di Conan. Di colpo avevo realizzato che aver scovato un sosia di Marco Iannone era un fatto decisivo, anche se lì per lì non avrei saputo che farmene.

Ester intanto era passata nella macchina accanto: quella di Ruffi, il ripetente cronico.

Non aveva saputo aspettare, lei. Smagliature e rughe agli occhi dettavano l’urgenza degli ultimi colpi. Si sa che il tempo logora, chi non ne ha.

6.

Dopo il colloquio con i miei ex colleghi gli ho telefonato, a Conan. Una settimana fa. Pensava a uno scherzo, ho dovuto convincerlo.

Sono andato a casa sua. Due stanze, una cucina minuscola. Odore di fritto.

Dei due figli, la ragazzina incantata sulla televisione si pettinava i capelli bagnati. Il piccolo sedeva a terra e schiacciava noci con un bicchiere.

«È semplice» gli ho detto. «Per fare bene Marco Iannone basta non fare Marco Iannone. Cioè: immagina Celentano che va in banca. Mica si mette a fare il ballo molleggiato e plisincorimentnanciuses, no? Ci va normale, ci va. Quelle là sono cose che servono agli imitatori per farlo riconoscere quando lo imitano. Quindi: più le fanno, più è chiaro che si tratta di un’imitazione.»

È passata la moglie, in braccio una bacinella di biancheria da stendere. L’ha adagiata sul tavolo, il tonfo morbido ha sbuffato in giro odore di limone.

«Io lo so, che vuoi dire.» Ha srotolato un lenzuolo grandissimo, se l’è piegato addosso infradiciandosi la maglia. Poi l’ha sistemato sullo stendino. «Una volta, a Roma, ho incontrato Ciccio Ingrassia. Era davanti a un bar. E non mi ha fatto ridere.»

Conan ha solo mosso la testa, ha guardato a terra. Poi se n’è andato sul divano.

«Va buo’» ho detto io, alzandomi. «Se hai dubbi chiedi a tua moglie. Lei ha capito.»

Il tempo di ripeterci gli appuntamenti e ho imboccato la porta.

Lo spicchio di luce sul pianerottolo ha rianimato uno scarafaggio sullo zerbino: è scattato per entrare, l’ho distrutto di tacco pieno. Un crocchio da nausea.

Poi, ansioso di un goccio serio, ho fatto le scale come tuffandomi da un trampolino.

La notte ho visto uno speciale su Jeff Beck, le pubblicità di panciere e polsini antistress, le repliche dei Robinson.

All’alba, fatti due conti, ho capito che per giorni non avrei più dormito.

7.

La telefonata arriva alle tre del pomeriggio.

Orietta sta spazzando il pianerottolo, sente il trillo dalla porta aperta. Sobbalza. Rientra in fretta, d’istinto si fa il segno della croce.

Il figlio è sul tappeto, sbuffando fa per posare il joystick del videogioco.

«Lascia, lascia» dice lei. Quasi lo rischiaccia a terra, spingendogli una spalla.

In cucina, sulla credenza, c’è l’apparecchio che le ho portato. Le ho spiegato di premere il tasto R, poi aspettare trenta secondi.

Un fatto semplice, ma lei ha voluto provarlo e riprovarlo, per giorni. Chiamandosi ogni volta dal cellulare, spendendo un’intera ricarica.

Ma nel farlo, adesso, comunque le trema la mano.

Uno, due, tre. Pronta?

No. Ancora un attimo. Uff, la tensione. Sospiri in serie, occhi peggio che chiusi. Serrati, blindati.

Ok, ora sì.

Forse.

Click.

Parte la segreteria: dice solo “la preghiamo di attendere”. Nessun saluto, nessuna presentazione. Sotto, la tromba di Louis Armstrong in We have all the time in the world. “Abbiamo tutto il tempo del mondo”: gran presa per culo, se lo dice una musichetta di attesa.

E comunque stop, eccoli là: trenta secondi sputati.

Via.

«Buongiorno, dica.»

«Buongiorno. La dottoressa Ardito?»

«Chi la desidera?»

«Fiorenzo Porri, Cassa Commerciale del Golfo.»

«Resti in linea, grazie.»

Di nuovo il tasto R, di nuovo il vecchio Louis. Ripassare al volo, intanto: Laura Ardito, voce flebile e nasale, vago accento siciliano. Vedova, sessant’anni, acida per vocazione.

Ciak, si gira.

«Pronto?…»

«Salve, dottoressa. Sono Porri, il dirett…»

«Sì, già so.» Secca, granitica. Acida per vocazione, appunto. «Marc… il dottor Iannone mi ha avvisata stamattina.»

«Ah, perfetto.» Rumore di una grattata sul viso, poi uno di quei sorrisi telefonici con sbuffetto di gola. «Burocrazia a parte, comunque, la chiamo anche per il piacere di conoscerci. Da quanto ho capito sarà lei, il mio riferimento per le questioni bancarie.»

«È così. Ecco perché mi permetto raccomandarle la massima discrezione, su questo numero. È una linea confidenziale. Quando parliamo di certe somme cerchiamo di avere intorno il minor pubblico possibile.»

«Condivisibile, lo farei anch’io.»

«La ringrazio. Ora abbia pazienza, ma devo stringere: di che cosa ha bisogno?»

«Certo, mi scusi…» Un rumore di penna, il fruscio dei fogli spostati. «Per il momento, copia degli ultimi due bilanci approvati e bozza di quello in corso. E un elenco degli eventuali altri affidamenti bancari. Mi perdonerà, spero, è solo un discorso di procedure. Non è che operazioni di questi importi ci capitino proprio tutti i giorni.»

«Lo immagino.» Orietta era già pronta per scrivere, ha di fianco un quaderno. Uno di quelli di suo figlio, di quinta elementare. Non è necessario ma prova a centrarne le righe. E sfora i bordi di mezzo centimetro. «Mi detti la mail, grazie.»

«Eccola: f.porri@cassacom.golfo.it. Appena avrò i documenti inizializzerò subito la posizione.»

«D’accordo. Ho delle pratiche in scadenza e una riunione con i commercialisti, ma cercherò comunque di essere rapida. A risentirci.»

Riattacca in fretta, mozzando i convenevoli di coda. Poi strappa il foglio dal quaderno e cerca di ricordare se c’è tutto.

Adesso dovrà solo chiamarmi e dettare. Con l’accesso globale che ho alla contabilità della Maiadero, stampare due bilanci e qualche conto mi prenderà pochi minuti.

Le tremano ancora le braccia, però. Si siede un po’ e aspetta che le passi. I nervi le tendono il viso, ne livellano i rilievi, diventano un ghigno senza labbra sotto i capelli raccolti.

Afferra il cellulare, col gomito spalanca l’anta socchiusa della finestra. Di colpo si fa pieno, vicino, il canto vibrato di un canarino in gabbia.

Si affaccia suo figlio. Le sorride, la abbraccia. Chiede se può rialzare il volume al videogioco.

Terza parte